Poco prima della morte, e quasi a suggellare la sua lunga e brillante carriera drammaturgica con un omaggio al genio universale di Shakespeare, Eduardo De Filippo decise di tradurre una delle opere del grande drammaturgo inglese.

Forse per una sorta di parallelismo biografico che al napoletano sembrava di intravedere tra la sua parabola creativa e quella del grande predecessore inglese, la sua scelta cadde sul dramma The Tempest che è comunemente ritenuto il capolavoro conclusivo della carriera artistica di Shakespeare. L’interesse dell’operazione non si esauriva qui, però, perché un’altra novità era rappresentata dalla lingua target che Eduardo decise di usare per la sua versione: non l’italiano, ma il dialetto napoletano del ‘600, coevo dell’inglese elisabettiano e mezzo espressivo che nella sua selettività faceva assumere alla traduzione un valore culturale complesso.

Eduardo però non conosceva l’inglese a sufficienza per affrontare la traduzione di un testo shakespeariano, e di The Tempest in particolare, ma da napoletano degno di questo nome seppe sfruttare al massimo le risorse a sua disposizione e queste, nel caso specifico di un lavoro di traduzione dall’inglese, erano rappresentate dalla competenza linguistica della sua compagna Isabella Quarantotti Gambini che gli fornì una traduzione meticolosa di tutte le scene del dramma includendo l’indicazione dei giochi di parole tanto presenti nell’intera opera di Shakespeare.

Catturare lo spirito della Tempesta e proporlo in una nuova veste trasferendolo alla situazione storico-culturale dell’Italia degli anni ottanta fu relativamente più agevole per Eduardo perché qui il drammaturgo napoletano poteva sopperire alle deficienze conoscitive dell’inglese con il suo grande talento drammatico e con la sua straordinaria esperienza di uomo di teatro. È su questo terreno comune che avrebbe potuto incontrare il suo più illustre predecessore britannico senza sfigurare.

Eduardo-De-Filippo

Eduardo De Filippo

Anche se la traduzione della Tempest cade nel periodo finale della sua vita, Shakespeare è presente nella lunga carriera di Eduardo fin dagli esordi con la stesura di La parte di Amleto (1940). Durante una delle Lezioni di teatro tenute all’Università «La Sapienza» di Roma, Eduardo ricordò infatti di avere letto molto da giovane quando aveva “gli occhi buoni”, e prima di ogni altro autore aveva scelto quello che lui riteneva “il primo della classe, Guglielmo Shakespeare”. Buona parte di queste lezioni furono dedicate proprio a Shakespeare e alle sue “intenzioni”, in altre parole, a quella che secondo De Filippo era la “tattica” usata dal drammaturgo inglese per affrontare argomenti delicati e che, considerati i tempi, avrebbero potuto comprometterlo. Sempre nella stessa lezione, De Filippo era stato ancora più esplicito sulla somiglianza che gli sembrava di intravedere tra la temperie storica del fascismo e quella elisabettiana. Benché lontane nel tempo e diverse, entrambe le epoche gli sembravano caratterizzate dalla forza censoria del potere politico sulla libertà espressiva dell’artista. “Lontano mille miglia dal pensare un accostamento con Shakespeare” egli disse “la situazione era stata per me la stessa” e così anche lui come Shakespeare era stato costretto a usare una “tattica”, anche lui aveva fatto “ridere il pubblico per poi operare un capovolgimento dell’azione e mostrargli la tragedia”. È chiaro, a questo punto, che De Filippo ammirava in Shakespeare anche, e forse soprattutto, la passione del denunciatore dell’ingiustizia e delle contraddizioni dell’agone politico e di quelle umane.

L’aver dedicato tutta la vita al teatro fin da giovani fa sì che Shakespeare ed Eduardo, entrambi sospesi tra la vita e il palcoscenico, considerino il teatro il mondo stesso. Se De Filippo diceva infatti che “il mondo è in fondo un gran palcoscenico e la vita una commedia allegra o triste secondo i casi”, Shakespeare fa dire ad Antonio (personaggio di The Tempest) «prendo il mondo per quello che è, […] un palcoscenico sul quale ognuno deve recitare una parte».

Ma, tornando alla “sfida”, perché fra i tanti capolavori del drammaturgo la scelta cadde sulla Tempesta?

The Tempest è l’ultimo dei drammi appartenenti alla fase conclusiva della produzione di Shakespeare della quale fanno parte altre tre opere: Pericles, Prince of Tyre; Cymbeline, King of Britain; e The Winter’s Tale. Si tratta di opere che esulano sia dal genere della commedia che da quello della tragedia e che i critici annoverano nel gruppo dei cosiddetti Romances.

Le ragioni che spinsero Eduardo ad affrontare la traduzione di questo testo le troviamo nelle sue stesse parole nelle note alla traduzione dell’opera: «[…] Ci sono tante […] ragioni che mi hanno fatto preferire La Tempesta ad altre splendide commedie scespiriane come Il sogno di una notte di mezza estate, o Come vi piace, o La dodicesima notte, e una delle più importanti è la tolleranza, la benevolenza che pervade tutta la storia: sebbene sia stato trattato in modo indegno da suo fratello, dal Re di Napoli, e da Sebastiano, Prospero non cerca la vendetta bensì il loro pentimento. Quale insegnamento più attuale avrebbe potuto dare un artista all’uomo di oggi, che in nome di una religione o di un “ideale” ammazza e commette crudeltà inaudite, in una escalation che chissà dove lo porterà? E preciso che tra gli “ideali” ci metto anche il denaro, la ricchezza, che appunto come ideali vengono considerati in questa nostra squallida società dei consumi». Questa citazione ci permette di chiarire i primi due motivi della scelta della Tempest. Da una parte Eduardo fa riferimento al clima di “tolleranza e benevolenza che pervade tutta la storia”; dall’altra questi insiste sull’attualità di quest’opera e del suo benefico effetto nel clima politico italiano dei primi anni Ottanta, caratterizzato, come si sa, dalla strategia della tensione e dal terrorismo. Questa finalità “pedagogica” comprende anche un attacco al consumismo della società contemporanea, responsabile del decadimento morale.

De Filippo dunque sceglie The Tempest per i suoi ideali etici di fondo.

Accanto a queste finalità etico-pedagogiche, c’erano altri motivi che convinsero il drammaturgo napoletano a tradurre quest’opera. C’era, forte, la nostalgia per Napoli che si manifestava anche in una nostalgia per i primi anni della sua carriera teatrale, quando si era cimentato nella Commedia dell’Arte. Le vicende e alcuni personaggi della Tempest (Trinculo, Caliban) al drammaturgo napoletano sembravano esibire una somiglianza impressionante con personaggi della tradizione drammatica popolare napoletana quali Razzullo e Sarchiapone ma anche con personaggi, vicende e situazioni dell’universo narrativo di Basile, di Cortese, dello Sgruttendio, e di altri rappresentanti della tradizione letteraria in dialetto napoletano di cui il drammaturgo era un appassionato lettore e non solo per motivi professionali. È chiaro a questo punto il rapporto di forte empatia e quasi di identificazione dal quale nasceva in Eduardo la decisione di affrontare la traduzione napoletana di Shakespeare e della Tempest in particolare.

Eduardo nella sua traduzione mira a trasferire, più che la “parola” del testo di partenza, il senso, e l’effetto che quel senso può avere in termini di rappresentazione di gesti, volti, ambienti, atmosfere. Questo non significa che De Filippo “tradisca” l’originale, anzi, proprio grazie alla sua grande esperienza e al suo talento, riesce a creare un equilibrio perfetto tra l’opera inglese e quella napoletana. Un equilibrio che fa sì che il lettore, ovvero lo spettatore, gusti l’originalità del lavoro di trasposizione senza mai dimenticare la grandezza dell’originale.

La Tempesta traduzione

La Tempesta, allestimento teatrale

Eduardo procede innanzitutto con l’eliminazione di tutte le componenti che rimandano esclusivamente al contesto culturale elisabettiano o giacobiano che avrebbero rischiato di non essere comprese dal pubblico italiano. In un certo senso De Filippo “sveste” l’opera del suo illustre predecessore, “per vestirla (pur restando nei limiti di un deferente rispetto) dei propri abiti”.

Il grande Eduardo non volle correre il rischio di essere condizionato da traduzioni illustri della Tempest (come ad esempio quella di Quasimodo) e per questo motivo le tralasciò ricorrendo direttamente alle conoscenze linguistiche della moglie per cogliere così il “succo” dell’opera shakespeariana; è come se la “sua” Tempesta fosse stata tradotta direttamente dall’edizione in folio del 1623, con l’ortografia modernizzata ma con la punteggiatura quasi sempre originale. Inoltre, nel corso della traduzione, Eduardo si assicurava che non vi fossero state interpretazioni di significato, e che quello che leggeva era il significato letterale delle parole inglesi; all’occorrenza chiedeva i diversi significati dei termini quando questi potevano avere più accezioni.

Insomma, il lavoro di “traduzione” che Eduardo intraprese non poteva consistere nella riproposta di un’ennesima, convenzionale, traduzione del testo shakespeariano. La sua preoccupazione è stata piuttosto cogliere lo spirito di quel testo, per ridargli un nuovo significato attraverso la sua riproposizione a un pubblico lontano culturalmente e storicamente da quello elisabettiano. Tutto questo richiede il lavoro di traduzione tecnicamente definito “target oriented”, finalizzato, cioè, alla vita futura e non passata del testo. Eduardo doveva necessariamente mettere in atto una tipologia di traduzione nella quale il testo originale fosse fatto parlare non solo con la lingua del suo autore, ma con i sussulti del cuore e della mente del traduttore. In questo modo il Grande Eduardo esplicitava un’idea di traduzione che forse ancora fa storcere la bocca ai dogmatici sostenitori della traduzione “verbum pro verbo”, ma che invece nella moderna traduttologia è accettata, se non per altro, almeno come modalità alternativa di far rivivere i classici in lingua straniera.

“Eduardo traduce Shakespeare: la sensibilità artistica nella traduzione” è a cura di That’s Parole

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